L’altro giorno ricevo una telefonata. Al di là sento una giovane voce un po’ distratta con un rumore di fondo molto marcato. “Buon giorno sono tizio dell’agenzia caio volevo sapere se aveva ricevuto il comunicato che le abbiamo inviato…”. Dopo circa 40 anni di lavoro nella comunicazione – alcuni dei quali trascorsi a fianco di imprese e aziende, capisco che la giovane voce si riferisce a un comunicato da me già approfondito con intervista all’amministratore delegato dell’azienda che sta pagando il suo stipendio. La notizia aveva già trovato un giusto spazio in questo sito. Mi fermo qualche istante, respiro profondamente e chiedo: “Mi scusi ma lei sa con chi sta parlando?” Risposta: ” Il giornale tal dei tali…”. Mi spiace, commento, sta parlando con una altra testata e non sa che il pezzo che tratta il suo cliente è già stato pubblicato…”. Chiedo ancora “Mi scusi di che azienda stiamo parlando, lo sa…?” Sento il panico che sale “… volevo sapere se aveva ricevuto il comunicato relativo a….”. Concludo: ” Egregio lei non conosce i media con cui tratta, non li legge e non sa nemmeno per quale azienda sta facendo questo recall…” Vi tralascio gli improperi (miei) e il balbettio (suo).
Sono anni che con il mio caro amico e collega Maurizio Montagna, che lavora per quotate testate dirette ai settori bancario e assicurativo, ci divertiamo (ma non troppo, poi) a catalogare improbabili comunicatori incontrati in trent’anni di mestiere ( il nostro) di giornalista. Trent’anni di comunicati stampa che ancora oggi, dopo le abbuffate degli anni ’80 e ’90, restano inesorabilmente vuoti. Creati dal nulla e per il nulla.
Le aziende continuano a investire una parte – oggi sempre meno, anzi quasi niente – dei loro soldi, così affannosamente rosicati sul totale degli investimenti, per comunicare al consumatore. Ma non solo. Le aziende devono comunicare alle altre aziende, agli Enti, allo Stato, ai possibili clienti e fornitori, a chi potrebbe promuovere la loro attività e i prodotti.
Ricevo quotidianamente comunicati scritti male, con errori di sintassi, per non parlare di quelli ortografici. Frasi ripetute più volte nel testo. Improbabili traduzioni dall’inglese. Luoghi comuni per non parlare della diffusa scontatezza. Concetti pieni di nulla. Abbondano aggettivi inutili come se le agenzie fossero pagate un tanto a riga. Per non parlare dell’uso improprio delle lettere maiuscole, dalle cariche delle persone alla semplice parola Azienda. Che dire?
Sono trascorsi quasi quarant’anni da quando ho preso questa strada e ne ho viste di tutti i colori. Ho visto spendere con tanta facilità denari di aziende con prodotti di largo consumo leader, per girare spot che rincorrevano le stagioni. Andare in Sud Africa per trovare un orto di pisellini. (Ma non si poteva girare sei mesi prima in Italia?) Assoldare il noto regista americano caricandolo d’oro solo per il suo nome e il successo ottenuto al cinema e poterlo “spendere” a livello mediatico, ma rimanendo insoddisfatti della sua produzione. Ma erano anni in cui di soldi se ne spendevano tanti. Forse troppi. Anni in cui chi non comunicava massicciamente era considerato un antico e forse anche uno sfigato. In questi ultimi decenni si sono spese molte parole – e anche qualche tentativo – sulla relazione costi/benefici in pubblicità. Sistemi certi sull’efficacia della comunicazione non ne sono mai stati trovati. E senza dover per forza citare Henry Ford e la sua battuta sugli investimenti in pubblicità, bisogna fare un plauso all’intero comparto produttivo di questo Paese.
Un comparto che nonostante le insicurezze, le incertezze, i dubbi, il calo dei consumi, le materie prime sempre più care, la globalizzazione, la concorrenza scorretta, le frodi, il costo dell’energia, le non marche e i difficili passaggi di testimoni tra generazioni alla guida delle imprese, ha saputo resistere.
Ha ancora voglia – oltre che la necessità – di investire in comunicazione.
Voglia di dialogare con il consumatore per raccontare i propri valori attraverso i prodotti e i servizi offerti. E per questo si fa aiutare da professionisti del settore. Quelli capaci. Quelli che curano la qualità, che vanno dritti al punto, che hanno buone relazioni internazionali – ma anche localissime, che conoscono e sanno parlare i linguaggi reali, comuni e sofisticati – quando serve – senza mai dimenticare il rispetto per il destinatario finale. Che poi significare avere rispetto per se stessi.