La riforma del credito cooperativo: c’è sempre qualcuno più uguale degli altri

Di Edoardo Varini

Sul decreto salva-banche varato dal Consiglio dei Ministri mercoledì notte gravano incognite: tra tutte, le maggiori, sono quelle incombenti su alcuni nodi della riforma del credito cooperativo. Quel decreto ha stravolto un testo di autoriforma che era stato proposto dallo stesso mondo del credito cooperativo.

Ora sia i dirigenti di Confcooperative sia quelli di Federcasse – l’associazione che riunisce le 376 banche di credito cooperativo – lamentano che il faticoso superamento delle divisioni interne conseguito in vista di un rafforzamento del sistema sia stato inutile, perché alla fine si è andati «nella direzione opposta, assicurando tentazioni opportunistiche».

MA E’ PROPRIO COSI’?

Si può facilmente verificarlo. Facciamolo. E scopriremo in un battibaleno che qualcuno – come al solito – è stato trattato diversamente dagli altri. All’italiana: gli obblighi universali sottintendono sempre un universo confinato. Ultimamente ne resta spesso esclusa la Toscana: chissà perché? La riforma approvata dal Governo prevede che tutte le Bcc siano obbligate a costituire entro 18 mesi una holding che abbia almeno 1 miliardo di euro di patrimonio. Tale holding dovrà quotarsi in Borsa mantenendo la maggioranza in mano alle cooperative. Ciò al fine di rafforzare il patrimonio senza rinunciare all’autonomia delle singole Bcc, che poi sarebbero le vecchie casse rurali accomunate per statuto dalla mutualità, cooperative senza fini di lucro il cui scopo dovrebbe essere – in estrema sintesi – quello di consentire un accesso al credito agevolato ai soci per permettere loro maggiori opportunità di crescita economica.

ALT QUALCOSA NON QUADRA

Dunque le Banche di credito cooperativo devono essere mutualistiche, locali, solidali ed appartenenti a un sistema coeso. Evidenzio un punto, quello dello stretto legame con il territorio, perché è imprescindibile: per sostenere le famiglie e la loro attività occorre conoscere da vicino le realtà territoriali in cui esse vivono. Il governo ha invece pensato di non preservare questo valore costituendo un gruppo unico, a livello nazionale; ma la cosa peggiore, la cosa concettualmente ingiustificabile, è che alcune Bcc potranno non aderirvi: quelle con patrimonio superiore a 200 milioni, cui sarà consentito diventare banche Spa tenendosi le riserve indisponibili e pagando un’imposta straordinaria del 20%. Ma che cosa sono le “riserve indisponibili”? Quelle che non possono essere ripartite tra i soci nemmeno in caso di scioglimento della Bcc, e che devono ammontare ad almeno il 70% degli utili al fine di poter svolgere con una maggior sicurezza attività mutualistica. È per questo che godono di benefici fiscali.

L’idea di consentire l’impiego di queste riserve – che possiamo a tutti gli effetti definire “bene comune” –ad una banca Spa dietro il pagamento di un 20% è palesemente incostituzionale. E quali saranno mai gli istituti più attivi in questo desiderio di non aderire al fondo comune e gestire a fini di lucro risorse accantonate per fini mutualistici dietro il pagamento di una tassa? Ma indovinate un po’! Due banche toscane. La Bcc di Cambiano con sede ad Empoli, di cui è tra i massimi dirigenti Marco Lotti – padre del sottosegretario di Palazzo Chigi, Luca Lotti – ed avente per presidente Paolo Regini, già sindaco di Castelfiorentino per un decennio, e tra le altre cose erogatore del mutuo per la campagna elettorale di Renzi nel 2009; e poi Chiantibanca, acquisitrice del Credito Cooperativo fiorentino già presieduto da Denis Verdini e probabilmente parte della futura banca toscana creata dalla riforma Lotti. Direi che le «tentazioni opportunistiche» cui accennavamo all’inizio risultano più che confermate. Ma di più: direi che le parole più giuste le ha dette Confcooperative: «Dal governo una violenza istituzionale che ci riporta indietro di decenni, ai giorni del fascismo che sciolse le associazioni cooperative». Che Mattarella abbia firmato di corsa il decreto senza sollevare la minima obiezione la dice lunga circa lo stato delle cose italiane.

Nella foto Edoardo Varini

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