Si investe ancora a Dubai? Sembra proprio di si. Mentre in Italia la crisi economica non accenna ad arrestarsi – 260 miliardi solo nel 2016, ci sono mercati che continuano a crescere a doppia cifra. Uno dei più ‘attraenti’, per molti investitori internazionali è Dubai.
Quindi investire a Dubai si può ma ci sono alcuni ‘miti’ da sfatare, perché, se è vero che lo stato dell’UAE permette di guadagnare cifre importanti a fronte degli investimenti giusti, è anche facile commettere errori grossolani e perdere tutto il capitale.
1. L’equazione ‘Dubai = successo e soldi facili’ è il primo grande stereotipo. “Forse era così all’inizio dell’espansione dell’Emirato, quando i primi imprenditori ed expat approdavano in un mercato quasi totalmente vergine. Gli expat – imprenditori o professionisti – sono ora quasi il 90% della popolazione totale, il che ha alzato i livelli di competitività e professionalità”, sostiene Thomas Paoletti, titolare e managing partner dello Studio Paoletti Legal Consultant con sede a Dubai dove si occupa, assieme a un team di professionisti, di assistere le imprese italiane in materia di investimenti all’estero e in fase di internazionalizzazione in Medio Oriente. Trovare lavoro a Dubai può risultare più semplice che in Italia (il tasso di disoccupazione si aggira intorno al 2-3%), le opportunità ci sono, ma bisogna darsi da fare per poterle cogliere. “Uno degli aspetti più allettanti dell’avere un’occupazione nell’Emirato è che qui, come negli altri Emirati, non è prevista la tassazione personale, e pertanto il reddito netto risulta maggiore”, aggiunge Paoletti. Anche avviare un’iniziativa imprenditoriale risulta più semplice e vantaggioso rispetto all’Italia. Tuttavia, “semplice” non vuol dire “immediato”. “Dall’esperienza accumulata in questi anni, vedo che risultati apprezzabili per chi avvia un’attività qui a Dubai arrivano solo dopo una media di tre/cinque anni, poiché il mercato locale tende a riconoscere e a premiare coloro che dimostrano di essere radicati sul territorio da un certo periodo di tempo. Sostituirei perciò l’equivalenza ‘Dubai = successo e soldi facili’ con una formula simile: ‘Dubai = prima impegno e poi successo e vantaggi’”.
2. Credere al binomio “’io metto il know-how = l’emiratino mette i soldi’. Questo secondo errore da evitare chiama in causa uno stereotipo culturale. “Mi riferisco a quel modo tipico italiano di credere, talvolta in modo anche arrogante, che i mercati esteri siano alla spasmodica ricerca del nostro know-how, e che a noi basti mettere questo sul piatto. Ho avuto esperienza di molti imprenditori che erano convinti di impostare una partnership con una realtà emiratina su queste basi: io ‘che ho 20 anni di esperienza in questo settore’ metto a disposizione il mio know-how, l’emiratino che ha i soldi finanzia il progetto. Questo non accade mai. L’imprenditore italiano deve accettare il fatto che per avere successo a Dubai è necessario prima investire e poi, in una prospettiva di medio-lungo periodo, guadagnare”.
3. Affidarsi al fai da te. “Il fai da te è la prima carta per l’insuccesso. Senza eccezioni”, sentenzia Paoletti. Anche se un imprenditore ha già avuto esperienza di internazionalizzazione in altri mercati e saprà a grandi linee quali sono i passi da seguire, è assai improbabile che sia in grado di recuperare le necessarie informazioni per poter svolgere uno studio di mercato e di paese preciso ed adeguato, con l’analisi della concorrenza, delle potenzialità, delle modalità di consumo, delle caratteristiche paese, degli operatori locali ecc. Inoltre, difficilmente avrà gli strumenti per valutare qual è la forma di insediamento migliore per il suo progetto tra tutte quelle possibili. “Non mi riferisco, però, solo ad un fai da te “tecnico”, ossia relativo a tutte quelle operazioni che vanno a comporre un progetto di internazionalizzazione, ma anche ad un fai da te dal significato più ampio, che include competenze culturali che difficilmente si possono possedere se non si ha alcuna esperienza sul campo”, spiega Paoletti.
4. Sottovalutare il fattore culturale: il 30-40% delle trattative fallisce a causa proprio della barriera culturale e di incomprensioni nell’approccio al mercato. “Gli emiratini hanno un diverso rapporto con il tempo rispetto agli occidentali, da un punto di vista business. La sollecitudine non è un fattore determinante nella conclusione degli affari e nemmeno nelle comunicazioni via mail; potreste dover aspettare giorni per ricevere una risposta, ma è del tutto normale”, spiega Paoletti. “Quando parlo con possibili clienti faccio sempre un esempio. Se per costituire una società con un partner locale occorresse un anno di tempo, cosa pensereste? Che probabilmente quel partner locale emiratino non è davvero interessato all’iniziativa imprenditoriale da voi proposta, oppure che non è serio. Questo è un errore culturale. La dimensione del tempo per gli emiratini non equivale alla nostra occidentale. Gli arabi in generale sono molto lenti negli affari ed è loro consuetudine portare avanti le trattative per molti mesi, fino anche all’anno, prima di arrivare alla firma finale. E può anche capitare che, dopo quell’anno di tempo, la trattativa conclusiva si chiuda addirittura nel cuore della notte, dopo trattative estenuanti per l’occidentale, ma del tutto normali per la mentalità araba”. Va ricordata anche la differenza che intercorre tra il nostro “tempo lavorativo” e il loro. Nei paesi islamici il giorno di festa obbligatorio per motivi religiosi è il venerdì, seguito dal sabato, festivo anch’esso. Non va dimenticato poi il periodo del Ramadam, il nono mese dell’anno lunare islamico della durata di 29 o 30 giorni, il mese sacro dei musulmani in cui, soprattutto nel settore pubblico, tutto si ferma. “Detto questo, gli emiratini che hanno studiato in paesi occidentali sono al giorno d’oggi numerosi e, più sensibili alla cultura occidentale, sanno di dover dare soluzioni e risposte in tempi più ragionevoli”, sottolinea ancora Paoletti.
5. In EAU si prediligono rapporti commerciali basati su relazioni stabili. “Una buona relazione può avere davvero un peso determinante. Talvolta le controparti e le banche locali, quando ragionano in base a regole derivanti da principi islamici, hanno delle difficoltà ad accettare i correnti modelli di business internazionali. Se però si riesce ad instaurare una profonda fiducia reciproca è possibile superare gli ostacoli e costruire un rapporto di lavoro ispirato dalla mutua affidabilità”, specifica Paoletti. È importante quindi dedicare i giusti sforzi per trovare le persone giuste da assegnare al progetto poiché, insieme a tutti gli altri fattori, anch’esse giocano un ruolo chiave per garantire il successo dell’iniziativa.
6. Rivolgersi ad un professionista competente in internazionalizzazione d’impresa. Ci sono dei criteri che vanno esaminati prima di avviare una collaborazione con un imprenditore. “Innanzitutto il fatturato: c’è un target di fatturato minimo che è necessario avere per poter essere in grado di sostenere i costi di un processo di internazionalizzazione. In secondo luogo la specialità del prodotto o del servizio offerto. È poi indispensabile valutare il target di clientela a cui si fa riferimento e le eventuali esperienze pregresse in altri mercati esteri”, elenca Paoletti. È inoltre molto importante fare attenzione a certi campanelli d’allarme, che fanno immediatamente capire come non ci si trovi di fronte a un consulente serio: “Ad esempio quando viene richiesto un compenso altissimo, anche fino a 100.000 euro, a fronte della promessa di entrare facilmente e senza troppi sforzi nel mercato emiratino, o se non viene condotto alcun esame critico dell’idea di business esposta dall’imprenditore che metta in luce i pro e i contro, o ancora se non viene redatto un esame critico sulla situazione di partenza dell’imprenditore: qual è il fatturato? la specialità del prodotto? il target di clientela di riferimento?”.
“La consulenza da cui partire per l’internazionalizzazione di impresa è bene sia legale, considerato che l’investitore italiano sarà tenuto a stipulare una serie di contratti con il partner locale che dovranno essere o redatti o controllati da un avvocato, che possa rappresentarlo e dargli una maggiore sicurezza”, specifica Paoletti.
Infine, è importante ricordare il fatto che molti emiratini si spacciano per essere appartenenti a famiglie di sceicchi e vantano di avere relazioni forti con personaggi importanti o all’interno di strutture di potere. In realtà sono più probabilmente delle persone benestanti senza una vera concretezza di business, che alla prova dei fatti non mantengono quello che hanno promesso.
7. Puntare sempre sulla qualità. Quello emiratino è un mercato molto competitivo ed esigente, composto da consumatori dall’alto potere di spesa (il PIL pro capite si aggira intorno ai 67000 dollari). “Sia che proponiate un prodotto o un servizio di fascia media o di fascia alta, fatevi sempre guidare dalla ricerca della qualità e non dalla quantità. Se trattate beni industriali o tecnologici, investite in ricerca e sviluppo per offrire soluzioni sempre più evolute e prestazionali. Se lavorate in campo alimentare, tenete presente che anche gli emiratini si orientano ormai su prodotti genuini e di qualità. Se quello che offrite è un servizio, siate sempre competenti e preparati, affidabili e gioviali”, è l’ultimo consiglio dell’esperto.
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