«È chiaro che le dimissioni di papa Benedetto XVI rimandano gli storici alla più nota delle dimissioni pontificie, quella di Celestino V, che rinunciò al papato dopo sei mesi, senza essere mai riuscito a insediarsi a Roma, il 13 dicembre 1294». Così Paolo Golinelli, docente di Storia Medievale presso l’Università di Verona, e autore per Mursia di Celestino V, il papa contadino, la biografia di Pietro del Morrone in corso di traduzione negli Stati Uniti. Le analogie non si fermano qui: «Come quelle di Celestino V, anche le dimissioni di papa Ratzinger sono state spontanee, e non imposte da altri o da circostanze esterne al papato stesso. Entrambe vengono dalla constatata impossibilità da parte dei pontifici di portare a termine il loro ideale di Chiesa: per entrambi – fatte le dovute proporzioni – una Chiesa spirituale, meno compromessa con i poteri politici ed economici dei loro tempi». Ma, soprattutto, continua lo storico, «entrambe basate su di un principio teologico incontestabile: il ritiro da parte del papa dell’adesione data al momento dell’accettazione del pontificato»..
Nel suo saggio Golinelli dimostra inoltre che Celestino V aveva preparato, d’accordo col re di Napoli, Carlo II d’Angiò, la sua elezione, scrivendo ai cardinali riuniti a Perugia e che la sua rinuncia fu una scelta autonoma, e non voluta da Benedetto Caetani, che gli succedette col nome di Bonifacio VIII (come ha invece sostenuto la propaganda antibonifaciana), nel momento in cui si accorse di non poter prendere possesso della sede pontificia, “prigioniero” com’era del re di Napoli, in Castelnuovo. «Credo davvero che la rinuncia al pontificato sia il gesto più eroico che un papa poteva fare», conclude Golinelli. «Nel De vita solitaria anche il Petrarca ha voluto ricordare, e proprio in merito a alle dimissioni di Celestino, come la ricerca della solitudine avvicini a Dio».
Celestino V (1210-1296), tra i papi più famosi e affascinanti del Medioevo, è stato spesso oggetto più di agiografie che di vere biografie storiche. Paolo Golinelli ne ripercorre la vicenda umana, inserendola nel contesto delle lotte politiche ed ecclesiastiche di fine Duecento, e nell’ambiente rurale e nella natura selvaggia nella quale egli crebbe e si fece eremita. Questa connotazione, mai prima evidenziata dalla critica, diviene l’occasione per ripensare al duro giudizio di Dante (Inferno III, 60), fornendone un’inedita interpretazione, mentre l’accurata lettura delle fonti porta a un riesame dei momenti chiave della sua esistenza, dalla sua stessa nascita «con la camicia», all’elezione pontificia; dall’approvazione del suo Ordine monastico alle dimissioni dal pontificato, che tanto fecero discutere; dai problemi quotidiani di un giovane eremita all’elevazione all’onore degli altari. Ne esce un quadro estremamente variegato, scritto con penna felice da uno storico apprezzato perché sa unire precisione documentaria a facilità di lettura.