Secondo l’ultimo Osservatorio Cineas commissionato al Politecnico di Milano sulla gestione del rischio nelle Pmi si evidenzia una situazione ambigua, che vede un certo aumento dell’interesse e della conoscenza verso i temi del risk management, ma un livello di applicazione ancora bloccato da vincoli strutturali e di costi e, quindi, limitato agli aspetti finanziari. Un atteggiamento motivato dalla crisi economica, che si rivela controproducente per la ripresa e per la stessa sopravvivenza delle aziende. Tradotto in numeri: 90% delle Piccole Imprese e l’82% delle Medie Imprese non ha al suo interno un professionista del Risk Manager –http://www.ipresslive.it/comunicates/1988/pmi-fra-crisi-e-risk-management.
Alcuni risultati dell’osservatorio sono stati discussi nel corso del convegno “Le aziende e il rischio: minacce emergenti e soluzioni possibili” promosso da Insurance Connect e patrocinato tra gli altri da ANRA e Cineas. L’Osservatorio ha intervistato un campione di 701 aziende italiane rappresentanti di tutti i settori economici, ma in modo particolare appartenenti ai macro settori dei servizi (36% del campione) e della manifattura (41%). E secondo l’indagine di fronte alla necessità di adattarsi a nuove forme di approccio al mercato, le imprese hanno avviato percorsi di rinnovamento, spesso trascurando gli aspetti legati al rischio.
Per le Pmi italiane l’uscita dalla recessione pare ancora lontana e nei due anni trascorsi dalla precedente indagine le imprese che percepiscono il mercato in contrazione sono aumentate del 20%, raggiungendo il 46% del totale intervistato; permane almeno l‘ottimismo per il 54% degli intervistati, che vede il proprio futuro più roseo rispetto a due anni fa. “L’indagine ha evidenziato tre aspetti su cui riflettere. Prima di tutto il rischio, in mancanza di un’adeguata cultura, è percepito dalle pmi solo come un fattore di negatività o non come opportunità di crescita. In seconda battuta, le imprese riconoscono come rischio solo quello finanziario, che peraltro spesso è conseguenza di una mancata attenzione ai rischi gestionali, trascinando per l’appunto l’analisi e la gestione dei rischi d’impresa.
Ed è una chiara dimostrazione di questo pericoloso atteggiamento l’ignoranza diffusa, evidenziata dall’Osservatorio Cineas, sui termini della legge 231 del 1998, ovvero di quella normativa che estende la responsabilità penale alle imprese. Solo il 16,8% delle pmi coinvolte dall’indagine è a conoscenza della normativa che pure potrebbe mettere a rischio la sopravvivenza delle aziende ben più di una temporanea stretta sul credito bancario”, sostiene Adolfo Bertani presidente di Cineas, consorzio universitario attivo nella diffusione della cultura del rischio. Solo una corretta diffusione della cultura del rischio può riportare il Paese, che proprio nelle pmi affonda la propria ricchezza, a crescere. Perché un Paese non può essere ricco e ignorante per più di una generazione. E questa generazione, in Italia, è già passata. E’ ora di guardare avanti parlando di prevenzione e formando le aziende”.
Anche la strategia di contrapposizione alla crisi attuata dalle aziende italiane è leggermente cambiata negli ultimi due anni, con un numero inferiore di imprese che guarda all’estero in cerca di mercati in crescita o di disponibilità di materie prime a costi più bassi (il 45% degli intervistati contro il 59% di due anni fa, ma resta l’operazione prioritaria per chi percepisce il mercato in crescita), e con una minore fiducia nella possibilità di effettuare investimenti proficui nel nostro Paese. Di contro, per dare una svolta alla propria situazione, le imprese che percepiscono il mercato in contrazione puntano all’interno, modificando nel 90% dei casi le proprie strutture di vertice. Subito dietro alla ricerca di nuovi mercati, le soluzioni più ricercate sono l’ampliamento del portafoglio prodotti (33.6%) e l’apertura di nuovi canali di vendita (24.3%).
È interessante notare come le imprese che affrontano nuovi mercati abbiano spesso una minore percezione del rischio, un aspetto che denota una non adeguata preparazione nell’affrontare situazioni nuove e sconosciute, di cui non si è in grado di valutare con completezza le criticità. Su questa situazione incide in modo importante l’assenza nel 63% delle imprese campione dell’utilizzo di tecniche di gestione del rischio, mentre poco più della metà del restante 37% valuta i rischi in maniera formale e con un processo strutturato, una percentuale maggiore del 10% rispetto alla rilevazione del 2012.
La motivazione va cercata in modo particolare nell’assenza di una figura interna dedicata in modo esclusivo all’attività di risk management, ruolo spesso affidato a figure interne che operano in genere con altre e maggiori responsabilità: è una situazione che riguarda il 90% delle piccole imprese e l’82% delle medie, che affidano in genere la valutazione del rischio all’amministratore delegato (72%) o al direttore finanziario (13%). L’assenza di una figura dedicata è da attribuire principalmente a due cause, l’incidenza del costo per l’impresa o il reale disinteresse per la funzione, intesa esclusivamente come formale. Le responsabilità oggi attribuite alle aziende, ad esempio dalla legge 231 o da direttive comunitarie recepite, richiedono la presenza di figure che abbiano le competenze e l’attenzione sufficiente per riconoscere il rischio e gestirlo. Le imprese oggi hanno tre strade: scegliere e formare una figura interna, sottoscrivere i servizi di Risk Engineering forniti da molte compagnie, o affidarsi in outsourcing alle società di consulenza.